Biopotere e biopolitica, immunizzare la società attraverso il controllo

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(Dal numero 180 di AboutPharma)

La salute dell’essere umano è un affare di Stato. In tempo di Covid-19 il concetto di immunizzazione è tornato alla ribalta. Oggi tutta la società è in cerca di una difesa contro il nemico invisibile che viene da fuori e che ha messo (e continuerà a mettere) a dura prova le strutture e sovrastrutture sanitarie, politiche, economiche e sociali. La corsa a un vaccino globale ne è l’esempio ultimo, perché uno scudo contro il nuovo coronavirus deve pur essere trovato per ritornare, sempre che sia possibile, a una società che possa guardare avanti. Questa è almeno l’aspettativa dei governi e dell’establishment globale. Una comunità rigenerata, autoconservata e immunizzata sia dal punto di vista sanitario che sociale apre nuovi dibattiti in tema di biopolitica e biopotere, ossia la capacità dello Stato di decidere della salute altrui e che si oppone al diritto di dare la morte (attraverso condanne capitali per esempio).

L’immunizzazione

Il concetto nasce a cavallo tra XVII e XVIII secolo (tra cui la formulazione di “biocrazia” del filosofo Auguste Comte nel suo “Système de politique positive” negli anni ’50 dell’800 o con il termine che tutt’oggi usiamo coniato da Georges Bataille nel ‘900) e ha visto la sua più ampia costruzione teorica con il filosofo, storico e sociologo francese Michel Foucault negli anni ’70 del secolo scorso arricchendo il dibattito contemporaneo. A lui per esempio si deve una serie di ragionamenti sul cosiddetto “Piano Beveridge” del 1942 che è considerato tuttora il più grande intervento internazionale di salute pubblica durante il massacro per eccellenza rappresentato dalla Seconda guerra mondiale. Secondo Foucault, responsabile di questo intreccio di protezione e negazione della vita è stato l’incontro tra la biopolitica e il razzismo biologista, innescato dalla pretesa di una razza geneticamente perfetta e superiore a cui tendeva la politica, soprattutto nazista. Già il filosofo Thomas Hobbes (1588-1651), tuttavia, aveva considerato che la posta in gioco prioritaria della politica fosse costituita dall’esigenza di conservazione della vita rispetto ai rischi di morte violenta inerenti alle interrelazioni umane e anche Friedrich Nietzsche (1844-1900) aveva parlato di una sovrapposizione tra politica e vita. Se Foucault è uno dei massimi esponenti di questo filone di pensiero con il quale oggi ci ritroviamo obtorto collo ad avere a che fare, bisognerà attendere gli anni ’90 del secolo scorso per tornare a una disquisizione organica sul tema con i filosofi Giorgio Agamben, Toni Negri e Roberto Esposito. I conflitti etnici nei Balcani e in Africa centrale, le migrazioni, i nuovi programmi di salute pubblica dei governi e una sempre maggiore e diffusa sindrome della sicurezza hanno richiesto nuove riflessioni sul tema. E torniamo quindi all’immunizzazione di cui si è occupato lungamente proprio Esposito, professore ordinario di Filosofia Teoretica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nel suo libro “Immunitas” (2002, ma di recente riedito). AboutPharma and Medical Devices lo ha intervistato.

Immunizzazione e tutela della salute come strumento di biopotere. La pandemia sta accendendo conflitti tra gli Stati (es. Cina e Usa) e la disponibilità di vaccini e/o cure può scavare un solco sociale, economico e politico tra coloro che presto o tardi potranno o meno permettersele, anche all’interno dello stesso Occidente. Quali rischi sta correndo l’umanità?

Non c’è dubbio che gravi rischi ci siano. Le procedure di immunizzazione e la protezione della salute sono sempre stati strumenti del biopotere a partire dall’inizio della stagione moderna. Foucault pone la genesi di questo processo alla fine del XVIII secolo, quando nascono le prime politiche urbanistiche, securitarie e mediche come forme di controllo sociale. Già in quella fase ospedali, manicomi, sanatori, insieme alle prigioni, costituiscono dispositivi per proteggere, ma anche per suddividere e inquadrare, le popolazioni all’interno di determinati spazi urbani. Foucault distingue tra le strategie di esclusione nelle forme residue di lebbra e di confinamento nei confronti della peste.

Anche a livello di politica internazionale ci sono delle evidenze…

Oggi questi processi di medicalizzazione hanno assunto una valenza anche geo-politica nel confronto e nello scontro tra grandi potenze continentali. La corsa al vaccino, soprattutto tra Usa e Cina, ma anche in altre parti del mondo, è significativa di questa implicazione. Già gli Stati Uniti si sono dichiarati disposti a comprare il vaccino da chi lo avesse prodotto per primo, usandolo anche come strumento di egemonia politica. E la Cina, se ne avesse la possibilità, farebbe probabilmente altrettanto, e con una trasparenza ancora minore. Ma anche in Europa si è già scatenata una competizione non soltanto economica tra gli Stati, e addirittura all’interno di essi, per il controllo delle risorse sanitarie. Tutto questo non può non avere effetti di disuguaglianza che preoccupano in una fase in cui sarebbe invece auspicabile mettere in comune gli sforzi di tutti.

Con quali strumenti politici e vincoli economici si possono controllare le derive del concetto secondo cui “chi controlla la salute controlla il mondo”?

È difficile evitare questa trasposizione dal piano medico-sanitario a quello economico-politico, dal momento che la stagione biopolitica che attualmente viviamo, e che tende a intensificarsi sempre di più, poggia proprio su questa interdipendenza immediata tra politica e vita biologica. Anche l’economia converge verso questa interrelazione, dal momento che la gestione della salute, pubblica e privata, è diventata essa stessa questione intrinsecamente politica e dunque biopolitica. Visto che non si può regredire a una fase precedente, che non è possibile saltare all’indietro, bisognerebbe aprire una stagione di biopolitica affermativa, dopo quella negativa, o addirittura “tanatopolitica”, che abbiamo conosciuto soprattutto, ma non esclusivamente, nella prima metà del Novecento. Cosa può essere una biopolitica affermativa? Cosa si dovrebbe mettere al suo centro?

E le risposte?

Ad esempio, una battaglia contro le grandi industrie farmaceutiche per abbattere il costo di medicinali, protetti dai brevetti, soprattutto nelle aree più povere, in Africa e in Asia, dove la mortalità per malattie contagiose resta altissima. Ma anche costruire nuove strutture ospedaliere pubbliche gratuite, che nell’attuale situazione pandemica sono apparse assolutamente insufficienti.

Al concetto di immunità (da un punto di vista storico, filosofico e sociologico) ha dedicato buona parte della sua ricerca negli ultimi anni. Quali riflessioni le suggerisce ciò che sta accadendo con Covid-19?

Il termine stesso, oltre che la pratica, dell’immunità è al centro del linguaggio pandemico: dalle ‘patenti di immunità’ all’app ‘Immuni’, a tutte le misure di ‘distanziamento sociale’ (un’espressione curiosa perché il distanziamento non è mai sociale, ma sempre asociale), la questione dell’immunità si pone al centro di tutti i discorsi, biologici, medici, giuridici, informatici (si pensi ai virus dei computer). L’immunizzazione sembra sempre più il perno intorno al quale ruota la nostra intera esperienza, reale e immaginaria, materiale e simbolica. Si tratta di una questione da esaminare con cura, distinguendo al suo interno tra livelli differenti. Da un lato un principio di immunizzazione è necessario in tutte le società. Nessun corpo, individuale o collettivo, resterebbe in vita senza un qualche sistema immunitario. Ma bisogna interrogarsi sulla soglia cui esso può arrivare. Oltre la quale c’è il rischio di scivolare in una malattia autoimmune, allorché la protezione diventa tanto forte da distruggere lo stesso corpo che dovrebbe difendere. Per esempio parlare, come si è fatto soprattutto nel Regno Unito, di ‘immunità di gregge’ comporta questo rischio. L’immunità di gregge intenzionale presuppone, per potersi diffondere, la morte di una gran numero di persone, soprattutto le più deboli, condannate in partenza.

Michel Foucault parlava della medicina come strumento di controllo sociale che invade il campo della politica se intervengono ragioni sanitarie. C’è un limite da porre? E dove?

È difficile indicare in astratto dove porre il limite. Tutto dipende da circostanze temporali e spaziali, oltre che dalla violenza delle epidemie. In linea di principio si dovrebbe cercare di ridurre la sovrapposizione crescente tra politica e medicina, evitando sia di politicizzare la medicina (si pensi alle battaglie ‘geopolitiche’ tra scuole mediche contrapposte) sia di medicalizzare la politica. Una piena medicalizzazione della politica porterebbe a fare dei cittadini dei ‘pazienti’ potenziali, ad esempio patologizzando la devianza o l’insubordinazione sociale.

Che cosa si può fare dunque?

Bisognerebbe, ma mi pare stia avvenendo il contrario, che, dopo aver ascoltato i medici e tenuto in debito conto le loro previsioni (sempre piuttosto incerte), i politici prendessero le proprie decisioni. Ma ciò presupporrebbe ceti politici, preparati e coraggiosi, che al momento mancano nella maggioranza dei Paesi occidentali. Ciò determina il proliferare di commissioni tecniche, destinate a preparare progetti che poi quasi mai vengono attuati. Anche perché i politici tendono ad attuare soltanto misure che aumentano il loro consenso, anche a prescindere dalla loro effettiva utilità.

La recente pandemia sta evidenziando un processo secolare ma acuito negli ultimi anni: il progresso scientifico – per i suoi alti costi – sta creando una medicina sempre più selettiva ed enormi disuguaglianze proprio sulla salute. È l’effetto di un arretramento delle istituzioni pubbliche rispetto alla ricerca e sviluppo affidata al privato o cos’altro?

Credo che il problema sia più generale. Certo la privatizzazione delle strutture mediche non aiuta e sta di per sé generando enormi problemi, penso soprattutto agli Stati Uniti, dopo che è stata smantellata la riforma di Obama. Ma la questione riguarda l’intera macchina produttiva capitalistica, in cui anche il settore della salute deve prima di tutto generare profitti. Ma un comparto predisposto a generare innanzitutto profitti è naturalmente portato a generare disuguaglianza. Ciò accade anche all’interno delle strutture sanitarie pubbliche, anche se in misura minore. Il problema è che è impossibile isolare un dato settore all’interno di un certo tipo di società. Vero è che al momento nessuno è in grado di proporre un modello alternativo di sviluppo sociale. Ciò non toglie che il problema esista e, prima o poi, vada affrontato con la massima energia.

Cosa sono biopotere e biopolitica

Partendo dagli sviluppi tecnologici di oggigiorno e dalle innovazioni in campo medico, Andrea Vicini, professore di Teologia morale alla Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale di Napoli, partendo da Foucault, spiega che la nozione di biopotere esamina le tecnologie che riguardano la vita umana dal punto di vista delle dinamiche di potere da esse generate accarezzando di conseguenza anche la nozione di biopolitica. Per biopolitica, quindi, si intendono tutte quelle pratiche attraverso cui viene esercitato il biopotere sui corpi fisici della comunità di riferimento. E la sanità non si esime. Il benessere fisico e la salute della popolazione diventano obiettivo diretto dell’agire politico che si trasforma in politica della salute o “noso-politica”. Foucault parla chiaramente di medicinalizzazione degli individui e l’igiene pubblica, a partire dal XVIII, secolo diventa strumento di lotta alle epidemie attraverso interventi medici “autoritari” (nel senso che derivano da un’autorità costituita) e hanno effetti sugli individui. Inoltre, con una classe medica sempre più consapevole della propria importanza all’interno della società si va costituendo una sorta di sapere medico-amministrativo con cui indirizzare la popolazione a determinati comportamenti socio-sanitari.

Il nuovo assetto politico sulla paura di ammalarsi

“Poiché la storia ci insegna che ogni fenomeno sociale ha o può avere implicazioni politiche, è opportuno registrare con attenzione il nuovo concetto che ha fatto oggi il suo ingresso nel lessico politico dell’Occidente: il distanziamento sociale”. Inizia così un articolo del filosofo Giorgio Agamben del 6 aprile 2020 pubblicato sul sito della casa editrice Quodlibet. Il filosofo, in riferimento al confinamento e alla quarantena imposta dal governo, si chiede “che cosa potrebbe essere un ordinamento politico fondato su di esso” e “non si tratta soltanto di un’ipotesi puramente teorica, se è vero, come da più parti si comincia a dire, che l’attuale emergenza sanitaria può essere considerata come il laboratorio in cui si preparano i nuovi assetti politici e sociali che attendono l’umanità”. Nel suo scritto, Agamben, trattando di distanziamento sociale, cita “Massa e potere” di Elias Canetti secondo cui la massa è dove il potere si fonda attraverso l’inversione della paura di essere toccati. In poche parole, l’uomo teme di essere “toccato” da qualcuno di esterno dal suo involucro protettivo che è la massa, mentre ora, con le politiche di allontanamento, la massa viene formata da individui che si tengono a ogni costo a distanza l’uno dall’altro.

 

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