L’Oms ha dichiarato la pandemia, tutti in Italia siamo in quarantena. Chi vi scrive è seduto comodamente sul divano mentre fuori è calato un silenzio inquietante. Per la prima volta nella storia di questo Paese il coprifuoco è una realtà diffusa, nessuno è escluso (tranne chi lavora negli alimentari o in farmacia). La guerra di oggi si combatte negli ospedali, in corsia, dove i malati continuano ad arrivare e i posti letto iniziano scarseggiare (almeno in Lombardia). Tutti siamo stati chiamati a fare la nostra parte nelle retrovie. Ma non c’è nessuna discesa in campo, no. Ci viene chiesto solo di restare a casa ad ammazzarci di Netflix, leggere abbondantemente libri, sperimentare in cucina e recuperare i giorni persi in palestra nel nostro salotto. Ma dopo l’emergenza cosa resterà? In tanti se lo chiedono. Il mio direttore qualche giorno fa mi disse “quando questa storia sarà finita la gente scenderà in piazza a festeggiare”. Forse tutti i torti non li ha, ma il dubbio su ciò che ci aspetta da qui in avanti qualche preoccupazione la suggerisce.
Cosa resterà?
Allo stato attuale mezza Europa ha alzato le barriere ai confini per evitare gli spostamenti. Viene meno quindi il diritto fondamentale su cui si basa l’Ue, la libera circolazione di merci e uomini. Vada per le merci (anche se non si spostano da sole), ma non per gli uomini. Austria, Slovenia hanno riattivato i controlli alla dogana, i Paesi baltici lo stesso, così la Polonia e l’Ungheria. L’Ue si ritrova frammentata, impaurita, confusa. Nessuno era pronto, nessuno. Ugo Tramballi Senior advisor dell’Ispi, Istituto italiano per gli studi di politica internazionale, in un articolo sul sito dell’istituto del 2 marzo scrive: “Essendo apolitico, il virus ha una potenzialità geopolitica oltre le ideologie degli uomini. È pericoloso per le dittature e le democrazie. Se le società civili di queste ultime, poco propense a dominare le paure in momenti di crisi, ritenessero che i loro governi non controllano l’epidemia, con la malattia crescerebbero le crisi politiche. Se il virus fosse rafforzato da un crollo economico, assisteremmo a una crescita dei populismi e dei nazionalismi più rapida di quanto stia accadendo ora. Il numero dei muri crescerebbe con la diffusione del virus, diventato il nuovo e forse più decisivo banco di prova per la Ue. Se una volta di più prevalessero burocrazia, esigenze dei bilanci ed egoismo dei paesi più immuni verso quelli più contagiati, sarebbe la morte dell’Unione”. Non ha tutti i torti. Se ci pensiamo le crisi prodotte da un virus così endemico rischierebbero di mettere in discussione tutto ciò che è stato costruito in questi anni.
La Cina consolida il suo potere
Così come gli Usa hanno imposto la propria egemonia con la prima guerra mondiale e ancor più con la seconda, stessa cosa accadrà con la Covid-19 per la Cina. Il fu Celeste impero è stato il Paese più colpito, ma allo stesso tempo sembra (il dubbio è sempre lecito) essere stato il primo a uscirne. Dall’altra parte del Pacifico, invece, inizia il calvario degli Usa che non hanno un sistema di prevenzione e sanitario all’altezza. La privatizzazione del Servizio sanitario nazionale impedisce a molti di avere accesso alle cure e con una malattia che rischia di essere letale per migliaia di statunitensi anche l’economia ne potrebbe risentire. A questo punto, mentre il presidente Donald Trump sembra aver vagamente capito cosa sta succedendo, la Cina sta imponendo il suo gioco e ha avviato un imponente macchina di aiuti per gli Stati più colpiti, in primis per l’Italia. Generalmente in casi di crisi umanitarie gli aiuti internazionali sono alla base delle cooperazione tra nazioni. Tuttavia, come successo con il terremoto di Haiti nel 2010 o l’ebola in Libera nel 2014, sono più Paesi a intervenire, spesso sotto l’egida dell’Onu. Qui ora è diverso. È la Cina a muoversi di sua spontanea volontà, forte di un’esperienza vincente contro il nuovo coronavirus. Pechino sta preparando il suo “Piano Marshall” imponendosi come nuovo punto di riferimento economico e politico.
I punti oscuri
C’è sempre un ma. Se la Cina ora viene acclamata per aver “sconfitto” l’agente patogeno (si fa per dire) e viene subissata di richieste per forniture mediche e personale sanitario (così come Venezuela e Cuba, questi ultimi considerati tra i migliori medici del mondo), ci sono alcuni punti oscuri. In un articolo di Marta Dassù pubblicato sulla rivista di geopolitica Aspenia, si elencano le difficoltà in cui la Cina invece potrebbe incorrere. Per la seconda volta in vent’anni il gigante asiatico è stato focolaio di due gravi epidemie, la Sars nel 2002-2003 e la Covid-19 oggi. Ciò, secondo molti analisti, metterebbe in discussione il primato tecnologico di Pechino come era avvenuto per l’Urss con Chernobyl nel 1986. Le difficoltà di prevenire e contenere l’emergenza e le contraddizioni interne al Paese (su tutte le difficoltà a mantenere accettabili livelli di sanità e salubrità degli ambienti che evitino il salto di specie di alcune patologie da animale a uomo) potrebbero altresì mettere in cattiva luce il gigante cinese. Soprattutto nei confronti di Taiwan e Hong Kong con cui la partita di riconoscibilità come Stati separati è ancora aperta.
La fine della vecchia globalizzazione
Sicuramente la Covid-19 segna un punto di svolta, la caduta di uno o più imperi. Trump si gioca parecchio con questa crisi che spaventa molto più della pattuglia di democratici che lo sfideranno a novembre 2020 per le presidenziali. La Cina si prepara per il balzo in avanti e diventare potenza egemone anche se dovrà stare attenta a non farsi schiacciare dal suo stesso peso. L’Ue riscopre i fantasmi del nazionalismo, alza barriere e mette in discussione Schenghen (anche se lo stesso patto prevede controlli ai confini in casi di emergenza per un periodo di tempo limitato). Insomma i grandi attori della globalizzazione si ritrovano impotenti di fronte all’inaspettato (anche se un rapporto del Center for Strategic and International Studies americano a ottobre aveva previsto la possibilità di un’epidemia su scala globale di un coronavirus) e il giro di boa è stato praticamente raggiunto. A cento anni esatti, o quasi, dalla caduta degli ultimi imperi, forse ne vedremo cadere e sorgere di nuovi.