Laobé in Senegal, tra la strada e il focolare

Il Senegal è un luogo affascinante, sgargiante, ricco di contraddizioni e di cui è facile innamorarsi. In un recente viaggio in questo Paese africano ho cercato di portare avanti un lavoro iniziato un anno fa in Nepal, alla scoperta delle abitudini dei randagi lì presenti. Nel corso della settimana passata prevalentemente nel nord del Paese (a settentrione del confine col Gambia, tra Dakar, Saint Louis e Lompoul) ho avuto modo di osservarne di vari tipi, anche se in buona parte tutti assimilabili come razza al dingo.

Il “cane giallo”, condizione mista

A differenza dei cani nepalesi, molti individui senegalesi hanno un padrone, tuttavia vivono prevalentemente per strada. Li si vede gironzolare davanti ai negozi, benzinai, centri commerciali, abitazioni e lungo le strade che costeggiano le savane. Dai locali è chiamato Laobé “cane giallo d’Africa” e discende dagli antichi cani egizi. Nel corso della storia ha avuto vari ruoli nella società senegalese: su tutte difendeva i greggi dalla fauna selvatica e aveva funzioni mistiche in quanto si riteneva che la sua presenza allontanasse gli spiriti maligni. Ora, a causa forse di un indebolimento delle tradizioni africane in favore delle “nuove” religioni (islam e cristianesimo, nonostante forti resistenze animistiche), molti animali vivono in una condizione di semi-randagismo.

Il Pariah

Il termine è di origine europea per indicare le classi più basse della piramide castale indiana. In generale la parola si riferisce a una condizione di isolamento, disprezzo ed emarginazione sociale che viene applicata anche agli animali in stato semi-selvatico.

Catena al collo

Molti cani hanno al collo dei guinzagli (o semplicemente catene) per identificare la loro appartenenza a una famiglia. Tuttavia sono spesso in giro e attaccano briga con altri loro simili. Allo stesso modo, quelli più liberi condividono gli spazi con altri animali, specialmente capre e gatti, diffusissimi nelle città e nei villaggi. Nei grandi mercati del pesce o nei luoghi maggiormente turistici come l’isola di Goree o Kayar fungono da spazzini.

No cane no!

Di recente mi sono imbattuto nella tesi di laurea di Filippo Concollato (anno accademico 2002-2003 “Evoluzione dell’immigrazione senegalese in Italia: un’indagine sul territorio“) in cui si accenna a un aspetto interessante. Durante l’intervista a un ragazzo senegalese residente all’epoca a Padova, si parla del ruolo del cane nell’ambiente domestico secondo alcuni precetti dell’Islam.  Mor, il giovane intervistato, spiega che “tutti animali è uguale, anche gato però cane no, cane dicono no perché religione musulmana non vuole cane in casa perché dicono che cane in casa angelo non vengo in casa perché cane abbaia”. Questa affermazione trova conferma negli scritti del profeta Ibn Maajah (IX secolo d.C.): “Gli angeli non entrano in una casa dove c’è un cane o un’immagine animata”. All’interno dell’intera comunità islamica, comunque, la questione del cane domestico è dibattuta e complessa. In linea generale è considerato impuro, ma ne è tollerata la presenza per fini di protezione, di caccia o sostegno ai disabili. L’idea che i musulmani odino i cani è stata spesso oggetto di mistificazione e strumentalizzazione. Come il maiale, anche il cane ha delle componenti di impurità che vanno considerate, tuttavia il discorso non può e non deve essere generalizzato. Tra “i detti” attribuiti a Maometto ce ne sono alcuni che trattano dell’impurità, altri che invece esaltano colui che aiuta un animale in difficoltà. Tra questi, per esempio, c’è la storia di un uomo che aiutando un cane assetato fu ringraziato e perdonato per i suoi peccati da Allah.

Alcuni fattori che incidono sul vagabondaggio

Due aspetti che incidono sulla presenza dei cani in strada in Senegal attengono alla poca familiarità dei musulmani con l’animale (e non odio come si pensa) e alle condizioni sociali delle comunità umane. Se un cane non può stare in casa è normale che alimenti all’esterno le proprie relazioni sociali con altri suoi simili. Questo comportamento uomo-cane è certamente vero per i musulmani, ma non tutti in Senegal sono fedeli al Corano. Seppur in minoranza ci sono anche etnie cristiane e permane fortemente una componente animistica in buona parte degli abitanti di quel Paese. Tuttavia va precisato, l’integrazione domestica è recente. L’animale da sempre è vissuto fuori dalla “casa”. E qui un altro concetto (tanto per complicare la situazione) per casa potrebbe essere definito come lo spazio che indica il grado di compatibilità e tolleranza tra uomo e cane. Il discorso è quindi complesso e non va dimenticato anche la condizione economica delle popolazioni. Animali abbandonati, poca cura da parte delle istituzioni, disinteresse individuale sono tutti fattori che alimentano il randagismo nelle grandi città (dove sono comunque meno visibili) e nei piccoli villaggi (dove invece la coesistenza è più tangibile).

Atcha!

Un termine che si sente spesso è “atcha”, che sta a significare “vai al diavolo, vai via”. L’ho sentito pronunciare durante la mia permanenza a M’Bour, sulle rive dell’oceano. In questa località di villeggiatura dove sono presenti molti turisti francesi c’era un gruppo di tre cani vaganti. Bighellonavano prevalentemente tra la spiaggia e i lodge. Le loro condizioni non erano ottimali. Un paio apparivano denutriti e un’altra, una femmina, devastata da pulci e zecche. A mantenerli erano i proprietari francesi della struttura turistica, tuttavia per mantenere “il decoro” nei confronti dei clienti, questi animali erano spesso cacciati via e allontanati verso la spiaggia. Atcha!

Un grazie a mio fratello Evandro per l’appoggio e i suggerimenti

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