Lo scacchiere diplomatico del centro Asia potrebbe mostrare dei risvolti interessanti dalle parti di Kabul. In un articolo dell’11 febbraio 2019, il giornalista e ricercatore dell’Ispi Giuliano Battiston prende in esame la possibilità che i Talebani (sic), possano rientrare a far parte di quelle parti dialoganti per il riassetto dell’Afghanistan.
Il ritiro degli Usa
Il disimpegno militare statunitense lascerà un vuoto (di cui si valutare l’effetto) dopo quasi 20 anni di guerra e le forze che fino a oggi sono state interessate all’area stanno cercando un accordo per il futuro dell’Afghanistan. Già dai negoziati in Qatar di inizio 2019 si è notata una svolta pro Talebani e che, in qualche misura, rimette in discussione il ruolo di “canaglie e terroristi” degli studenti coranici. Durante i colloqui, stando a quanto scrive Battiston, si è cercato di raggiungere un accordo di massima tra Zalmay Khalilzad, negoziatore Usa e i rappresentanti talebani; la bozza di documento prevederebbe il ritiro delle truppe americane in cambio “dell’impegno dei Talebani a impedire che l’Afghanistan venga usato da gruppi jihadisti a vocazione transnazionale”. Pesano, secondo Battiston, le incognite di una delegittimazione del governo afghano (lasciato da parte durante i colloqui) e l’isolazionismo (e isolamento) di Trump sulla scena internazionale.
Cina, Russia, India e Pakistan
Tra l’altro al tavolo delle trattative vogliono partecipare altri big della politica asiatica come Cina, India, Russia e Pakistan che hanno accusato gli Usa di monopolizzare il processo di pace nel Paese. Non è un caso che a Mosca, tra il 5 e il 6 febbraio 2019 si siano seduti attorno a un tavolo alcuni esponenti dei Talebani ed esponenti della politica afghana. Mosca vuole dire la sua e lo fa ponendosi in parallelo rispetto alle strategie di Washington. Entrambe mirano a rilegittimare i Talebani come soggetto politico dialogante. Le due super potenze chiedono che il jihadismo internazionale (Isis e Al-Qaeda) venga ostacolato dagli studenti coranici e che venga distinto, scrive sempre Battiston, dal jihadismo nazionale dei Talebani per liberare il Paese dagli eserciti stranieri.
Nuovo Vietnam
La cosiddetta exit strategy è un’ammissione implicita di aver perso la guerra. Un boccone amaro per gli Usa che nel 2001 volevano cospargere di sale ogni anfratto montuoso in cui si nascondevano i jihadisti, mentre ora si ritrovano a doverci dialogare per la stabilità dell’Afghanistan. Sono saltati tutti i paletti. Dalla guerra totale al rinforzo Nato nel 2008, al primo ripiegamento sotto Obama e la conseguente decisione di addestrare le forze locali per fronteggiare i Telebani in vista dell’abbandono dell’area. Un nuovo Vietnam da appuntare sui libri di storia, anche se forze meno doloroso rispetto al conflitto indocinese.
Nemici-amici
Come afferma Andrea Carati dell’Università di Milano e ricercatore dell’Ispi, i Talebani di oggi non sono gli stessi di vent’anni fa. Sono cambiati i leader (il mullah Abdul Ghani Baradar che guida il negoziato da parte talebana, rappresenta la vecchia leadership talebana, legata all’eredità del mullah Omar anche se la sua guida non è influente come quella del suo predeessore) ed esistono molti più gruppi che spesso sono autocefali e autonomi. Una galassia di milizie non sempre amalgamate tra loro. Ma c’è un altro tema che va affrontato. Nel 2001 i Talebani sono stati dipinti come i mostri da abbattere e contro cui si è scatenato l’odio del mondo dopo l’attentato dell’11 settembre. Dopo più di un decennio di guerra l’Afghanistan non è stato ancora liberato e loro sono ancora lì, con in mano il 35% del Paese. Dopo la sfuriata delle bombe su Kabul, i morti, i feriti e soprattutto la propaganda ci si accomoda per negoziare. Come se un prete si sedesse al tavolo con il diavolo a seguito di un esorcismo non riuscito per chiedergli una tregua.