Morte e fotografia, quando uno scatto è meglio non mostrarlo

In Nepal ho avuto l’occasione di assistere a dei rituali funebri al tempio di Pashupatinath, località sacra agli induisti non distante da Khatmandu. Un luogo profondamente spirituale. In ogni angolo si possono trovare persone che pregano, famiglie dedite ai rituali tradizionali, anziane che fanno offerte. Insomma chi va lì entra a far parte di una grande comunità di fedeli animati dallo spirito di osservanza.

Funerali occidentali e orientali

Nella cultura occidentale i riti funebri avvengono in genere all’interno di una ristretta cerchia di persone care. Dal letto di morte all’obitorio fino alla chiesa e al cimitero. L’unico momento “condiviso” con il resto della comunità è il passaggio del carro funebre per le vie. In Nepal, questi passaggi sono meno intimi. A Pashupatinath il morto viene adagiato lungo il fiume Baghmati e viene vestito e adornato per la cerimonia vera e propria. Una liturgia che richiede tempo, pazienza, perché il morto va preparato con cura, vestito con un sudario arancione, profumato con sandalo e canfora e condotto solennemente verso il luogo della cremazione. Come per ogni luogo sacro in Nepal, in segno di rispetto, il circuito da seguire è sempre in senso orario. La barella viene sorretta da tre uomini che compiono tre giri e poi poggiano il cadavere sulla pira. Affinché l’anima si libri fuori dal corpo materiale e si possa un giorno reincarnare, il fuoco viene acceso in bocca dopo che in essa è stato inserito dell’oro per purificarla. Una volta che la cremazione è avvenuta, le ceneri vengono gettate nell’acqua del fiume. Nello stesso posto, su una banchina piuttosto stretta, a distanza di pochi metri, possono avvenire più rituali contemporaneamente.

La fotografia e la morte (parte 1)

Ma a questo punto mi sono posto un problema. Il rito funebre è molto interessante e ci sono dei passaggi che meritano di essere fotografati. Ma la domanda è un’altra. Pur essendo un rituale “pubblico”, nel senso che non avviene all’interno di uno spazio privato, quanto è giusto mostrare gli scatti che rappresentano un cadavere e il dolore dei familiari? Ci sono due elementi da considerare. Il primo, di carattere più giornalistico. C’è il diritto di cronaca, racconto un fatto, scatto e scrivo l’articolo. Il secondo è di carattere etico. A chi piacerebbe vedersi fotografare mentre piange un parente infilato in una bara? Ripeto, anche se un morto è un morto ha una sua dignità. Certo alcuni tra gli scatti più famosi al mondo hanno ripreso scene crude, di guerre, di dolore. E lì impera il diritto di cronaca. Ma questo “diritto” ha comunque un limite ed è giusto che lo abbia. Prendiamo l’esempio del funerale di Pashupatinath. Con le fotografie potrei raccontare come avviene un rituale indù. Posso fare un approfondimento, raccontare qualcosa (che tecnicamente e a livello teorico è il lavoro del giornalista), spiegare un fatto. Ma in questo caso ho avuto paura di violare quello spazio sacro che è proprio di una famiglia che ha perso un caro. Ho scattato, ho ripreso il volto dei figli contriti dal dolore, la pira in fiamme. Ho pensato di farne una gallery…ecco ho pensato…ma non l’ho fatto.

La fotografia e la morte (parte 2)

Il miliziano nella guerra civile spagnola di Robert Capa, la bambina e l’avvoltoio di Kevin Carter o the Falling man di Richard Drew (per citarne alcune) sono emblematiche. In uno scatto si racconta non solo l’evento in sè, ma anche il contesto nel quale quella foto è stata scattata. Prendiamo il lavoro di Drew dell’11 settembre 2001 a New York. Un uomo si lancia dal suo piano per non essere inghiottito dalle fiamme delle Torri Gemelle cercando salvezza nel vuoto. Una foto che parla da sola e che non rivela l’ideantità del soggetto ripreso (tra l’altro intorno ad essa c’è stato un forte dibattito). Nonostante il volto non si veda, questa fotografia è stata in parte censurata per anni anche dai media americani. Porta con sé un significato più ampio, che va oltre l’immagine. Così come lo scatto di Carter. Una denuncia contro la fame e la povertà nel mondo. Parliamo di esempi celebri, di lavori rimasti nella storia del fotogiornalismo. Tuttavia ritengo che anche nel piccolo si debba fare attenzione. Dietro all’obbiettivo, dal professionista all’amatore, non si deve solo osservare e pensare, ma anche percepire e sentire.

 

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