“Questo documentario è stato realizzato in condizioni di clandestinità”.
Il lavoro del regista catalano Jordi Oriola inizia così, prima di passare in rassegna i vari protagonisti che si sono concessi alle telecamere. Quasi tutto il lavoro si sviluppa attraverso le interviste a una serie di attivisti che da anni sono impegnati nella lotta non violenta per la liberazione del Sahara occidentale, territorio sotto occupazione marocchina dal 1975.
Esto es ilegal
Il documentario verrà presentato in tutta Italia. A Sesto San Giovanni è stato proiettato il 7 aprile al centro sociale Silvia Baldina. Anche il regista era presente. Innanzi tutto va chiarito che i giornalisti non hanno vita facile lì. Non possono entrare come tali e bisogna lavorare in clandestinità. Si rischia grosso, dall’arresto all’espulsione dal Paese. Il Marocco, infatti, ci tiene a mantenere la facciata di legalità nei dintorni di El Ayun, capitale del Sahara occidentale. Nei fatti è vietato andare in giro a riprendere e a fare domande. Ecco perchè, come spiega il regista stesso, tutte le interviste venivano fatte all’interno di abitazioni private, lontano da occhi indiscreti. Le riprese sono state fatte due anni fa e hanno richiesto tre settimane di lavoro sul campo.
Lotta violenta o no?
Alla fine del documentario sorge una domanda. Il Fronte Polisario, ossia il gruppo armato che per anni ha combattuto l’esercito marocchino d’invasione, ha deposto le armi in una tregua armata nel 1991. Nei fatti la lotta continua sotto altre forme non violente anche se, come dicono molti intervistati, i giovani sono stanchi di aspettare i passi lenti della diplomazia. L’Onu aveva promesso oltre 40 anni fa un referendum per l’autodeterminazione dei Saharawi, ma il governo di Rabat ha sempre ostacolato questo processo. Fino agli inizi degli anni 2000 non c’erano internet, nè una linea telefonica internazionale. Adesso molti cercano di combattere l’autorità marocchina a colpi di clandestinità attraverso la rete. Una guerra cibernetica che si combatte a colpi di hackeraggio. Ma non solo, perché alla luce del sole molti attivisti si muovono con murales e altre forme di protesta. Soprattutto nei pressi del muro di fango che il Marocco ha edificato per contenere i territori occupati.
Le dinamiche internazionali
Il documentario è in concorso in alcuni festival (per questo non esiste ancora una versione integrale online), ma il Marocco ha fatto molta pressione affinché questo filmato non abbia una grande diffusione a livello internazionale. Ne andrebbe dell’immagine della famiglia reale. Francia e Spagna appoggiano Rabat per gli interessi in comune. L’Italia nicchia. In Africa il problema è vissuto in maniera piuttosto netta. I Paesi subsahariani sono favorevoli all’indipendenza del Sahara occidentale. Quelli del maghreb no (con qualche perplessità dell’ Algeria), forse per vicinanza etnica (sono tutti arabi). Questa dicotomia si percepisce bene all’interno delle dinamiche diplomatiche dell’Unione africana. Il Sahara occidentale, dal 1984, è tra gli Stati mebri, il Marocco, uscitone proprio a metà degli anni ’80, ha voluto rientrare a gennaio 2017. Decisa l’opposizione (inutile) del Sud Africa e dell’Algeria.
Soli
I Saharawi, nei fatti, sono soli. Mediaticamente non fanno notizia. Ben pochi conoscono le loro vicende. Eppure hanno un destino comune con i Palestinesi. Ma Gaza ha dalla sua una crescente attenzione internazionale e l’appoggio (in varie forme) di alcuni Paesi arabi. I Saharawi no, eccezion fatta per la vicinanza (diplomatica) degli Stati africani che poco possono contro le superpotenze europee e gli Stati Uniti.
👍🏽Se vuoi verso orario di pranzo esce una mia intervista ad un fotografo sahrawi, poi se riesco amerei dedicare una giusta parola a questo popolo unico
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Ciao, scusa se ti rispondo ora ma ero all’estero e con internet a singhiozzo. Se vogliamo parlare di Saharawi ben venga, possiamo metterci d’accordo e vedere che si può fare.
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