Sabato 3 febbraio, durante l’evento Closer a Bologna organizzato da Witness Journal, ho moderato l’incontro con il fotografo Fausto Podavini, che ha speso cinque anni a documentare i lavori della diga etiope Gibe III sul fiume Omo.
“Omo change” è un lavoro importante, da poco completato, che documenta l’impatto di imponenti opere architettoniche sull’ambiente e le popolazioni che vivono intorno ai cantieri. E il risultato è impressionante.
Gibe III
Ad aver messo le mani sulla regione ci sono turchi, cinesi (che finanziano parte del progetto e hanno tra le mani il debito pubblico etiope) e italiani che hanno curato la costruzione della diga. La diga stessa ha creato un bacino artificiale per l’approvigionamento di energia idroelettica di cui l’Etiopia ha un gran bisogno. Il governo etiope, che di democratico ha ben poco, con una concessione multimilionaria (quasi 1,5 miliardi di euro) all’italiana Salini costruttori nel 2006 ha messo alle strette le popolazioni che da secoli vivono intorno al bacino del fiume Omo, corso d’acqua che si snoda fino al Kenya, sfociando nel lago Turkana.
L’impatto ambientale è stato disastroso. Per non parlare poi, come scrive Survival International, delle terre espropriate e affittate nel 2011 ad aziende malesi, italiane, indiane e coreane specializzate nella coltivazione di palma da olio, jatropha, cotone e mais per la produzione di biocarburanti.
Ad aver subìto le conseguenze peggiori dell’avvio dei lavori sono stati i Bodi, i Kwegu, i Suri e i Mursi. Ma dai documenti ufficiali – spiega Podavini – non risultano evidenze di impatto, ne informative alle popolazioni circa il proprio destino. Insomma l’abbassamento del fiume di quasi dieci metri non sarebbe dovuto alla voracità idrofora della diga.
Difficoltà a documentare
Il governo etiope, in più occasioni, ha proibito a giornalisti stranieri di visitare i cantieri. Lo stesso Podavini, per fotografare, ha dovuto sfruttare un visto turistico e muoversi con “basso profilo”, dice. Non sono pochi i reporter a essere finiti in galera per molto meno.
Turkana’s resilience
La desertificazione che la costruzione della diga etiope porta con sè ha ripercussioni anche a sud, in Kenya, intorno al lago Turkana. Un ambiente lacustre intorno al quale vivono numerose popolazioni che si sostengono con allevamento e pesca. Ma con l’aumentare delle temperature (tra 2 e 3 °C tra il 1967 e 2012) e l’aumento della popolazione (da 855.393 persone nel 2009 a 1.256.152 persone nel 2015), la situazione sta diventando insostenibile. Le esondazioni stagionali che fertilizzavano i campi adiacenti al fiume e al lago sono diminuite di numero. Piove poco e la siccità diventa sempre più mortale. Per il bestiame, come per gli uomini. Un altro lavoro presentato sempre a Closer quest’anno (Turkana’s resilience) di Maurizio Di Pietro racconta proprio la vita dei Turkana, popolo che stenta a sopravvivere in un ambiente ormai diventato ostile. Un esempio concreto. La carenza dei pascoli impatta pesantemente sull’alimentazione e la salute del bestiame, vera fonte di ricchezza in quella regione. Oltre a fornire carne e latte, una vacca, per esempio, diventa anche merce di scambio all’interno di una contrattazione matrimoniale. Un uomo che cerca moglie offre il proprio capo di bestiame alla famiglia della sua futura sposa. E (dato che quella dei Turkana è una società poligama), più un uomo ha bestiame da concedere, più mogli può avere.
Antonio Oleari, che ha curato l’articolo sul numero 95 di Witness Journal, non usa mezzi termini. Turkana potrebbe diventare il nuovo lago d’Aral, ormai praticamente desertificato.
Conflitti etnici
Se mancano le risorse, diminuiscono anche le persone che le possiedono. Va da sè che chi non ha cerca di prendere da chi ha. E chi ha cerca di mantenere ciò che ha. Le migrazioni fanno il resto. Le popolazioni si spostano da territori che non hanno più nulla da offrire e lo scontro con il vicino è purtroppo inevitabile.