1192 isole di cui 200 abitate. Un paradiso naturale unico che viene scelto per vacanze all’insegna del relax. Ma tutto questo rischia di sparire e nelle maniera più tragica. Le Maldive, infatti, potrebbero scomparire.
Il conto alla rovescia è già iniziato. I cambiamenti climatici stanno mettendo a rischio l’intero ecosistema, soprattutto a causa dell’innalzamento del mare. Dieci anni fa l’allora presidente maldiviano Mohamed Nasheed aveva dichiarato al Guardian di voler creare un fondo di investimento per comprare terra in un altro Paese e dare avvio a una possibile migrazione forzata sul continente. Una sorta di assicurazione sulla vita. “Non vogliamo lasciare le Maldive”, ha riportato il Corriere della Sera in un articolo di nove anni fa “ma non vogliamo nemmeno diventare profughi e vivere per decenni nelle tende”.
Ad affiancare le Maldive ci sono anche altri Stati insulari come Marshall, Tuvalu e Kiribati (in Oceania), anch’essi più direttamente coinvolti dall’innalzamento delle acque.
A tal proposito nel 2016, in occasione del primo vertice umanitario mondiale, il primo ministro tuvaluano Enele Sopoaga ha espressamente richiesto che venga riconosciuto lo status giuridico di rifugiato ambientale.
Ma una volta che queste popolazioni avranno abbandonato le proprie case per cercare salvezza e fortuna altrove, come saranno accolti dalla comunità internazionale? Saranno migranti, certo, ma di che tipo? Il termine di rifugiato ambientale, secondo gli accordi internazionali, non esiste. Si sa che la giurisprudenza vive di terminologie precise. Un rifugiato politico non è comparabile a un rifugiato ambientale. Sono due cose diverse. Per questo servirebbe una definizione precisa che stenta ad arrivare. Il rifugiato ambientale non è perseguitato nel suo Paese, non subisce alcun tipo di repressione per il colore della pelle, l’orientamento politico, religioso o per la propria libertà sessuale. Fugge per altri motivi.
Il termine appare una prima volta nel documento “International Institute for Environment and Development”, ma trova la sua consacrazione grazie al ricercatore egiziano Essam El-Hinnawi, autore del rapporto Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) nel 1985. In quel rapporto i migranti ambientali vengono definiti come “persone che sono state costrette a lasciare il loro habitat tradizionale, temporaneamente o permanentemente, a causa di un’interruzione ambientale (naturale e/o causato dall’uomo) che ha messo in pericolo la loro esistenza e/o gravemente influito sulla qualità della loro vita. Con ‘interruzione ambientale’ si intende ogni cambiamento fisico, chimico e/o cambiamento biologico nell’ecosistema (o nelle risorse di base) che lo rendono, temporaneamente o in modo permanente, inadatto a sostenere la vita umana”.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), ad esempio, ha adottato nel 2007 una definizione che esclude l’uso del termine ‘rifugiato’, e che parla di persone costrette a lasciare il tradizionale luogo di residenza poiché i propri mezzi di sostentamento sono stati messi a rischio da processi di degrado ambientale, da danni ecologici irreversibili o da cambiamenti climatici. Già nello State of the World’s Refugee del 1993, però, l’Unhcr aveva identificato il degrado ambientale tra le quattro principali cause di emigrazione, insieme a instabilità politica, tensioni economiche e conflitti etnici.
L’Organizzazione Mondiale per la Migrazione, nel suo rapporto 2008 sulle migrazioni e i cambiamenti climatici, mantiene il termine ‘rifugiati ambientali’, definendoli come “persone o gruppi di persone che, per ragioni legate ad un cambiamento ambientale, improvviso o progressivo, che influisce negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono costrette a lasciare il proprio territorio temporaneamente o definitivamente, e che perciò si spostano dentro al loro paese o ne escono”.
Le agenzie dell’Onu, ed in particolare l’Unhcr, il Programma Ambientale (Unep) e il Programma di Sviluppo (Unp), convergono nel sostenere che è preferibile usare il termine “displaced person” piuttosto che rifugiato o profugo ambientale, poiché queste ultime definizioni sarebbero un abuso del concetto giuridico di rifugiato espresso nella Convenzione di Ginevra sui Rifugiati e nel suo Protocollo aggiuntivo.
Secondo Idmc (Internal displacement monitoring center) dal 2008 al 2014, oltre 157 milioni di persone sono state costrette a spostarsi per eventi meteorologici estremi. Sempre l’Idmc ha calcolato che oggi le persone hanno il 60% per cento in più di probabilità di dover abbandonare la propria casa di quanto non ne avessero nel 1975. I dati sono contenuti nel rapporto “Migrazioni e cambiamento climatico” a cura di CeSPI, FOCSIV e WWF Italia rilasciato alla vigilia della Cop di Parigi. Lo scenario più estremo dell’ultimo rapporto dell’Ipcc prevede entro il 2100 un incremento dell’innalzamento del livello dei mari di 98 cm. Un’enormità. Soprattutto se si pensa che nelle Maldive nessuna terra emersa supera i due metri sopra il livello del mare.
Lo status giuridico del ‘rifugiato’ è disciplinato nella Convenzione di Ginevra sui Rifugiati, firmata a Ginevra nel 1951, in seguito modificata dal Protocollo del 1967. L’articolo 1 accorda tale status a “chiunque, per un fondato timore di essere perseguitato per questioni di razza, religione o opinioni politiche, si trovi all’esterno del Paese di cui possiede la nazionalità e non può, o a causa di tale timore non vuole, avvalersi della protezione di quel Paese; oppure a chiunque, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.
Quattro sono dunque gli elementi che un migrante deve soddisfare per essere qualificato “rifugiato” ai sensi della Convenzione e poter dunque beneficiare della relativa tutela giuridica: trovarsi al di fuori dei confini del suo Paese di origine; il suo Paese d’origine non deve essere in grado di offrire protezione o rendere possibile il ritorno; la causa della migrazione deve essere inevitabile; la causa della migrazione deve essere legata a ragioni legate alla razza, alla nazionalità o all’appartenenza del soggetto ad un gruppo sociale o ad un’opinione politica.
Nessun riferimento ai traumi climatici.
Dei problemi legati al clima si è iniziato a parlare da poco. Nonostante la questione non sia recente, solo negli ultimi vent’anni è stata percepita una nuova sensibilità da parte dell’opinione pubblica e, seppur in minima parte, dei politici.
Tempo per rimettere mano ai testi di diritto internazionale?