
Conta solo il quadro o anche la cornice? Un dubbio che può sorgere se si pensa al reportage. Unire insieme cioè giornalismo e letteratura. Una sintesi che spesso rischia di sminuire entrambe le cose se non si è sufficientemente bravi a tenerle divise. Il problema? Non sempre sono questi temi compatibili. Da una parte il racconto dei fatti, crudi e puri, dall’altra il vezzo artistico, legittimo, tipico della creazione letteraria. Il tema è stato affrontato durante l’incontro “La grande scuola polacca del reportage” in cui ha parlato il giornalista Wojciech Jagielski in occasione di Bookpride 2017 a Base Milano. Francesco Cataluccio, saggista e scrittore italiano, che ha introdotto i lavori, dice che i reporter polacchi hanno una spiccata sensibilità artistica e amano raccontare i fatti con piglio narrativo. Giornalisti prestati al mondo della narrativa in sostanza. Il contrario di quanto accaduto a Goffredo Parise, scrittore, che ha raccontato la guerra in Vietnam con fare giornalistico.
Quando pensiamo al reportage polacco, la mente vola a Ryszard Kapuściński, famoso per i suoi lavori in Africa negli anni ’60. “Per lui l’aspetto dell’invenzione era funzionale”, racconta Jagielski, difendendo la scelta del suo collega di fare cronaca attraverso il racconto. Ma questa decisione è costata cara a Kapuściński, più volte accusato di aver inventato molti dei fatti narrati soltanto per rendere più leggibile e trasmissibile il contenuto dei suoi libri. Anche Jagielski, come il suo predecessore, ama lasciarsi trasportare dalla narrativa. “Lavoravo come corrispondente dall’estero. Preparavo dei dispacci e forse in questo vedo delle somiglianze tra la mia vita e quella di Kapuściński – racconta – Il materiale in più che raccoglievamo costitutiva il materiale per i nostri libri. Non ho mai girato il mondo in cerca di un tema, mi capitava di imbattermici. Se non fossi stato giornalista non avrei mai scritto nessun libro”.
In Polonia questo genere è chiamato “letteratura del fatto” e nasce da una necessità. “Può darsi che questo dipenda dal provicinalismo polacco – spiega ancora Jagielski – Per mezzo secolo siamo stati tagliati fuori dal mondo a causa del regime comunista. Non conoscevamo il mondo e non lo comprendevamo. Dovevamo trovare qualche fatto all’estero nel quale un cittadino polacco potesse riconoscersi”.
Secondo il reporter, stilisticamente i polacchi sono più vicini agli italiani o agli spagnoli. Più ingessati gli anglosassoni, massimi detrattori di Kapuściński (più amato in Italia).
Ma allora è possibile unire le due cose? Raccontare i fatti evitando fronzoli letterari? Forse sì, ma il rischio è alto e il pasticcio è dietro l’angolo.
Credo che la vena narrativa sia fondamentale per costruire reportage di qualità. Questo non vuol dire inventarsi di sana pianta i fatti o stravolgere la realtà: la deontologia giornalistica deve restare un punto fermo, altrimenti non è più giornalismo, ma letteratura.
Reportage, come quelli di Kapuscinski (che io tra l’altro adoro) scritti con stile, coinvolgono e, proprio per questo, funzionano.
La bravura sta, come forse in tutte le cose, nel trovare il famoso giusto mezzo, l’equilibrio tra la verità e la percezione che abbiamo di essa, filtrata dalla nostra sensibilità.
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Un terreno scivoloso secondo me. La tentazione di fare della letteratura non più un supporto, ma l’elemento principale di ciò che si sta facendo è una tentazione. Poi certo, come dici tu l’equilibrio è fondamentale. Lì si vede la bravura del giornalista. Il suo dovere, dopotutto, è quello di far passare un messaggio a un pubblico che sia il più ampio possibile. Se ben scritta l’informazione viaggia meglio.
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