Una volta si diceva che l’Africa sarebbe stato il continente del futuro, ricco di potenzialità umane e di risorse naturali. Un recente articolo sul blog Lens del New York Times, ha sottolineato un aspetto interessante che riguarda da vicino l’attività fotogiornalistica nel continente nero. Secondo lo State of Photography 2015 report del World press photo, solo il 2% delle iscrizioni ai concorsi annuali vengono da professionisti africani. Un po’ pochino, considerando che il dato nel 2016 non è migliorato, anche se a dispetto di altri colleghi, gli africani sono quelli che riescono meglio a farsi assumere da grandi giornali o agenzie.
Secondo Whitney Richardson, autrice dell’articolo, l’assenza di una copertura locale nel mercato internazionale si riflette anche nella partecipazioni a importanti premi e riconoscimenti.

Il nigeriano Akintunde Akinleye, che per anni ha collaborato con Reuters, dice che per fare un buon lavoro non è tanto necessario avere una buona strumentazione, quanto le basi di storytelling e photoediting, aspetti carenti nelle università e nelle scuole africane.
La preparazione è fondamentale dato che le agenzie internazionali puntano tantissimo sui fotografi locali. I giornalisti africani devono avere la possibilità di emergere e pubblicare le loro storie. Una piattaforma che senz’altro funziona è Instagram e testimone di ciò è Andrew Esiebo, nigeriano, che con il suo account @everydayafrica ha raggiunto i 91 mila follower. “Internet ti dà le stesse possibilità degli altri”, è solito dire ai fotografi più giovani.

L’account è stato inserito all’interno di un database nato dalla collaborazione della commissione del World Press Photo e il social network Blink per registrare e monitorare online i fotogiornalisti del continente. L’obiettivo è mettere in connessione tutti i professionisti del settore e sviluppare le loro potenzialità.
Ma se da una parte c’è chi, come Akinleye, sprona i giovani a cercare fortuna e finanziamenti altrove, altri spingono affinché siano gli “altri” a venire in casa propria. Tra questi Aida Muluneh e Azu Nwagbogu fondatori e direttori rispettivamente dell’Addis foto fest in Etiopia e dell’Africa artists foundation e del LagosPhoto festival in Nigeria.
“In molte zone del continente l’idea della fotografia non si è ancora sviluppata”, ha detto l’italiano Marco Longari, capo della sezione africana di France presse. La ricerca di talenti di Longari si focalizza soprattuto in Kenya, Nigeria e Sud Africa (dove lui lavora) e proprio il Paese di Mandela è considerato una delle migliori scuole di fotogiornalismo di tutta l’Africa. Negli anni ’50, il tedesco Jürgen Schadeberg ha formato una generazione di giovani fotografi che poi avrebbe documentato le atrocità dell’apartheid per Drum magazine come Ernest Cole, Bob Gosani o Peter Magubane.

Più di recente, nel 1989, David Goldblatt ha fondato il programma Market Workshop di cui hanno beneficiato professionisti come Zanele Muholi o Jodi Bieber.
Tra i programmi degni di nota ci sono anche quelli avviati dalla Zimbabwe association of female photographers, dal Nuku studio ad Accra (Ghana) e dal Sudanese photography group.
L’obiettivo, secondo Esiebo, è quello che di rendere i professionisti africani meno dipendenti dalle pubblicazioni internazionali, ma iniziare sempre più collaborazioni “in casa”.