“Educa i bambini e non sarà necessario poi punire gli uomini”. Il detto di Pitagora potrebbe essere valido ancora oggi. Un bambino che non vede nel diverso un nemico o un invasore, ma un compagno di giochi con cui condividere qualcosa, diventerà un adulto meno permeabile ai preconcetti. Perché impara che non c’è niente di sbagliato ad avere la pelle di un altro colore o a professare un culto diverso. La scuola è il primo luogo di integrazione. Dai nostri istituti dovrebbero uscire le generazioni di domani, migliori, per certi aspetti, di quelle che le hanno precedute.
In certi Paesi del mondo la convivenza non è solo una questione di civiltà e accoglienza, bensì di sopravvivenza. Delicati equilibri che se vengono meno possono trascinare un’intera collettività nel caos. Per evitare questo, l’educazione è il primo seme di una società più equilibrata che sappia far convivere diverse culture. La scolarizzazione non fornisce solo gli elementi base dell’alfabetizzazione, per quanto fondamentale, soprattutto per i bambini che non possono accedere ai servizi scolastici. Un esempio su tutti è il Libano. Michele Giorgio in un suo reportage per il Manifesto ripreso da Nenia news fa cenno proprio alle attività educative nei campi profughi in favore dei bambini siriani e palestinesi. Tra le organizzazioni e associazioni attive ci sono quella di Beit Atfal al Sumud, Associazione per la Pace e Un Ponte per.
L’attività educativa avviene in un contesto non semplice in cui per due anni ha dominato l’impasse politico. Di recente l’Assemblea nazionale ha eletto un nuovo Presidente della Repubblica, Michel Aoun, e un nuovo esecutivo di unità nazionale, presieduto da Saad Hariri, sotto la benedizione di Hezbollah.
Tramite skype ho raggiunto Paola Rizet, responsabile del progetto “Education without borders” dell’organizzazione “Un ponte per” all’interno dei campi di Shatila e Bourj el-Barajenh. Per l’iniziativa sono stati “elezionati quattro volontari del Servizio Civile Internazionale, due ragazze e due ragazzi – si legge sul sito dell’organizzazione – che saranno impegnati in Libano da novembre 2016 fino a settembre 2017, per il primo progetto di sperimentazione dei Corpi Civili di Pace. Il lavoro prevede che i volontari seguano percorsi educativi di carattere non formale destinati a minori palestinesi, libanesi e siriani”.
Il progetto “Education without borders” nasce in sinergia con i vostri partner Beit Atfal al Sumud e Permanent Peace Movement. Quando avete iniziato a programmare un lavoro di questo tipo?
Abbiamo iniziato nell’estate del 2014, quando sono venuta qui in missione per quattro mesi ed è stata avviata tutta una serie di colloqui dai quali è nata l’idea del progetto.
Chi sono i quattro giovani volontari che prenderanno parte a questo progetto e quale è il loro profilo?
Sono tutti ragazzi che hanno terminato gli studi. Sono due ragazzi e due ragazze che hanno dei tagli professionali molto diversi. Le due ragazze parlano l’arabo e per questa ragione lavorano principalmente con il Permanent Peace Movement. Seguono le attività di training sugli adulti e in futuro sui minori, nonchè sulla coesione sociale e la prevenzione del conflitto. Spesso lavorano con siriani, palestinesi e libanesi. I due ragazzi parlano inglese e si occupano dell’insegnamento e del supporto delle attività educative promosse dalle insegnanti di inglese nei campi profughi di Bourj el-Barajenh e Shatila che sono i campi più grandi nella periferia di Beirut.
Tutti e quattro hanno superato la formazione generale prevista dal servizio civile, poi la specifica di più di 72 ore. Infine hanno fatto un percorso di raccolta di materiale e di studio a Roma prima di arrivare in loco.
I quattro ragazzi vivono e lavorano stabilmente nei campi?
I ragazzi non sono impegnati per 24 ore nei campi, vi lavorano dal lunedì al venerdì. Operano sia nelle due classi di asilo Kindergarten 1 e Kindergarten 2, che nelle classi di “special needs”, cioè dove sono ragazzi di 13-14 anni che hanno abbandonato la scuola. Queste classi conducono anche al reinserimento scolastico. Il lavoro si svolge anche nelle classi di recupero, affiancando bambini che hanno problemi d’apprendimento e disturbi dell’attenzione e che normalmente non possono accedere al sistema scolastico oppure hanno abbandonato gli studi.
Un’altra attività del progetto prevede che i volontari siano impegnati in un lavoro di indagine e di ricerca sull’educazione formale (scuola pubblica) e informale (training, workshop, forme di accesso all’istruzione non promosse dal governo, molto presenti nel Paese, come le classi di recupero per i bambini rifugiati siriani o palestinesi).
Quanti sono i bambini?
Circa 150 a Bourj el-Barajenh divisi nelle varie classi e altrettanti se non di più nel campo di Shatila. E in più ci sono anche altre attività che si potrebbero definire ludico-ricreative volte a coinvolgere altri bambini.
Quale è stato l’approccio iniziale dei quattro volontari?
Prima di tutto bisognava entrare in relazione con la popolazione locale con l’intento di essere il più rispettosi possibile. C’è stato uno stadio iniziale in cui i ragazzi si sono posti in una fase di osservazione attiva; andavano nel campo, preparavano piccole attività di supporto finalizzate alla comprensione delle modalità di insegnamento per capire come poi avrebbero potuto inserirsi nella collaborazione con le maestre. Si stanno già vedendo i primi risultati.
Quale è stato il vostro rapporto con le autorità locali?
In questo momento noi lavoriamo nel sistema di educazione non formale. Non abbiamo interagito, in questo senso, con le autorità libanesi.
Il sistema educativo informale non riguarda la scuola pubblica libanese alla quale non tutti i bambini possono accedere. Possiamo definirlo, quindi, parallelo a quello più meramente istituzionale e formale?
Sì. Anche perché i palestinesi non possono accedere alle scuole del governo libanese, ma possono andare solo nelle scuole dell’Unrwa che è l’agenzia delle Nazioni Unite deputata alla formazione e all’educazione dei rifugiati palestinesi, mentre per tutti gli altri c’è l’Unhcr, questo grande ombrello che raccoglie profughi da tutto il mondo.
Infine una domanda di contesto. Le vicine guerre in Siria ed Iraq nonchè l’ondata migratoria degli ultimi anni, che effetto hanno avuto sulla popolazione secondo voi?
Dobbiamo tenere presente che in Libano c’erano già 450 mila rifugiati Palestinesi di cui la metà si trova in campi profughi e vive in Libano con tutta una serie di diritti che viene ad essa negati. I Siriani sono arrivati nel corso del tempo, un po’ alla volta e non è facile tenere insieme tutti. Il Libano è grande più o meno come l’Abruzzo, con 4 milioni di persone che hanno visto l’arrivo di un milione di rifugiati siriani. Stiamo parlando di un quarto della popolazione. Io credo che in altri Paesi del mondo sarebbero successi disastri. Il Libano, che è già costituito da un tessuto sociale molto complesso, ha retto. Tutto questo ha determinato comunque grandi difficoltà anche per i libanesi. Qui l’elettricità può saltare da un momento all’altro, l’acqua non è potabile, anche le risorse sono diminuite, il costo degli affitti è salito e i salari si sono ridotti. I Siriani, ad esempio, sono disposti a lavorare con un riconoscimento economico minore. Ci sono state frizioni all’interno della società, però il Libano ha reagito bene grazie anche agli aiuti che sono arrivati dal Governo e dalle organizzazioni internazionali. Non tutta la popolazione è contenta, però questi sono discorsi che si possono fare qui come in Italia. Va dato atto, comunque, che la popolazione ha reagito bene.