Ultimamente torno spesso sui miei passi per approfondire argomenti già trattati. Leggendo il mensile Maledetti Fotografi ho trovato spunti interessanti sul fotogiornalismo. La raccolta di interviste fatte da Enrico Ratto a professionisti di fama internazionale, mi ha messo davanti a questioni di cui ero al corrente, ma che ora mi appaiono sotto un’altra luce. Sarà la vocazione da storico che torna a forza di mangiar panettoni prima di natale o un po’ di amarcord per la ricerca “trova, estrapola, spiega” a cui ero abituato ai tempi dell’università, ma questo post di giornalistico ha ben poco.
La prima risposta che mi ha fatto balzare sulla sedia è stata quella che ha dato Efrem Raimondi alla domanda se il reportage e il fotogiornalismo possono finalmente interpretare una verità.
Possiamo parlare ancora una volta, dopo anni, del miliziano di Capa. Per quel che mi riguarda, non ha alcuna importanza se quella fotografia è la cronaca dell’uccisione del miliziano.
L’equivoco è che, in qualche modo, si pensa che il fotografo che si occupa di reportage si misuri con la verità. Questo è falso, perché non si misura mai con la verità assoluta, si misura con una verità relativa. È molto probabile che Robert Capa abbia visto decine di volte quella scena senza mai fotografarla. Può essere quindi che quella foto nasca da un percorso reale, e che sia un’icona in grado di esemplificare molto bene che cosa è la guerra. Non sarà una “foto vera” ma è veritiera.

Foto vera e veritiera. Non sono proprio la stessa cosa. Allora a che serve fotografare in ambito giornalistico? Si racconta la realtà (cronaca) o si fornisce un’idea di un evento più complesso? In parte sì a quanto pare. Mi vengono in mente allora le foto di Jeff Widener dell’Associated Press a piazza Tienanmen o di Kim Phuk in Vietnam. Due foto che registrano un evento, ma che, allo stesso tempo rappresentano fatti di portata internazionale. Foto simbolo oramai, che hanno perso la loro carica di attualità (forse). Questo mette il fotoreporter in una condizione ambivalente, dato che la sua professionalità traballa tra il cronista e il vate (portatore di certi valori e idee). Un cambiamento di rotta in linea, forse, con il cambiamento che tutti i giornali del mondo stanno vivendo.
Alle perplessità di Ratto, Heinz Stephan Tesarek risponde in modo preciso.
Penso che ci siano due parole chiave per tutto ciò che è successo ai giornali, non solo in Austria o in Italia o negli Stati Uniti, ma ovunque. La prima è naturalmente internet e le possibilità digitali, che hanno segnato il declino di questo mestiere.
La seconda ragione è più delicata. La mia opinione è che i media
si siano trasformati da strumenti per esplorare il mondo e capire che cosa stesse succedendo, a strumenti per estendere il potere. Il focus è passato dall’informazione al potere.
Non gli si può dare torto. La pressione dei media in certi ambiti o argomenti è pesantissima e spesso eterodiretta. Poteri contro altri poteri con la leva dell’informazione. Una bomba a mano da scagliare al momento opportuno. Le dinamiche di controllo dei canali di informazione, che siano radiofonici, televisivi, fotografici o su carta stampata dipendono spesso dall’argomento che si vuole sottolineare, in parte, ma non per forza, perché di comodo a qualcuno. Pensiamo ai filoni sul terrorismo, sulla corruzione della politica o sulle manifestazioni in piazza. Improvvisamente tutto il mondo dei media si focalizza su un argomento, ritenendolo l’unico meritevole di interesse pubblico. Anche per i fotografi è così. Se un fotogiornalista freelance vuole vendere un prodotto, spesso deve attenersi alla “moda”. Di questo ne ha parlato con Enrico Ratto Paola Agosti:
Certamente all’epoca mia il ruolo dei giornali nel mondo dell’informazione era più importante e di conseguenza anche il lavoro dei fotogiornalisti aveva un peso maggiore. Sicuramente nel mio caso la passione mi spingeva a seguire degli argomenti a prescindere dal mercato.
Se si parla di mercato e quindi di profitto, non si può non parlare di etica, cioè quella vocina che impedisce di correre dietro al denaro o alla fama pur avendo in tasca la foto del secolo. Perché? Perché non tutte le foto posso essere pubblicate, perché a volte, secondo alcuni, l’immagine catturata dalla pellicola è troppo intima per renderla di pubblico dominio. Così la pensa Filippo La Mantia.
Ho fatto scatti crudi, feroci e molto impressionanti. Ai giornali
mandavo le foto che volevo io, non quelle che chiedevano loro. La sofferenza non si fotografa.
Ma se un giornalista non vuole fornire determinate immagini come si fa? Ecco che allora ci sono altre vie per raccogliere fotografie. Ci sono quelle fatte con lo smartphone, spesso rimediabili dai social network e quelle in “stock”, immagazzinate su appositi siti e pronte ad essere utilizzate (dietro sottoscrizione di un contratto apposito). Ecco cosa dice a tal proposito Michele Neri.
Stiamo parlando di tutto questo perché, una decina di anni fa,
qualcuno ha deciso di installare una fotocamera nel telefono.
Se avesse installato un termometro, saremmo qui a parlare di meteo?
Con loro si è aperta una crepa nel mercato, naturalmente. Ma
soprattutto questo tipo di immagini hanno portato al disinteresse, anche se inconsapevole, del lettore verso i giornali. Se il giornale continua a pubblicare fotografie ripetitive di persone sorridenti e molto simili tra loro, e spesso scattate in contesti che non ci riguardano, si genera una progressiva diseducazione e allontanamento.
Disinteresse per la fotografia e quindi ai giornali. L’educazione al bello che viene meno, sciacquata via dalla ripetitività e dalla banalità delle immagini.
È un’altra parte di “vero” che scompare. Basta guardare al caso della fotografia adoperata nella campagna sulla fertilità del ministro Lorenzin.