Essere Rohingya: quando nessuno ti vuole

Apriamo il dizionario. Andiamo alla voce apolidìa e leggiamo:

Persona che, avendo perduto la cittadinanza di origine e non avendone assunta alcun’altra, non è cittadino di alcuno stato.

Senza una cittadinanza non si hanno diritti, non si hanno doveri, si vive in un limbo dal quale è difficile uscire. In termine tecnico si parla di mancanza di status civitatis.

Trovandosi in una situazione di vulnerabilità ed assenza di diritti, l’apolide è esposto al rischio di essere vittima di lavoro nero, sfruttamento e traffico di esseri umani. L’apolidia comporta un elevato costo umano e sociale, poiché mette in discussione la percezione dell’individuo in rapporto al proprio ruolo all’interno della comunità e può portare a situazioni di marginalità, instabilità e conflitto.

Questo è quanto è scritto sul sito dell’Unhcr e testimonia la durezza di questa condizione. In un contesto di semiapolidia si trova un’etnia ben precisa in una parte del mondo altrettanto precisa: i Rohingya nel sud est asiatico.

Vivono prevalentemente in Thailandia, Bangladesh, Myanmar e Malesia, ma la loro condizione di vita rasenta, appunto, l’apolidia. Definirli tali è forse esagerato, ma ci sono degli elementi da tenere in considerazione.

I Rohingya sono una minoranza musulmana in paesi buddisti e vivono una condizione di emarginazione. I problemi maggiori si riscontrano tra Bangladesh e Birmania. Qui la maggior parte dei Rohingya vive in campi profughi diventati vere e proprie baraccopoli. Diffusi nello stato di Rakhine in Myanmar, i Rohingya non sono riconosciuti come una delle 134 minoranze etniche del Paese e il governo centrale ha imposto rigidissimi controlli sugli spostamenti, matrimoni o nascite. Servono permessi per ogni cosa. Il 28 maggio 2012 tre giovani Rohingya sono stati accusati di aver stuprato e ucciso una giovane birmana, scatenando una furibonda reazione della controparte buddista contro la minoranza musulmana. Case incendiate, persecuzioni in strada e pestaggi. A Sittwa, capitale di Rakhine, il quartiere di Aungmingalar è diventato a tutti gli effetti il ghetto dove vivono circa 4mila Rohingya in condizioni precarie. Mancano le infrastrutture ospedaliere, i servizi igienici sono al minimo, l’accesso all’istruzione è interdetto e gli abitanti non hanno diritto alla proprietà privata nè ad un posto di lavoro. Vivono nell’indigenza più assoluta.

Non è un caso che molti cerchino di fuggire in altri paesi, specialmente in Indonesia. Secondo le Nazioni Unite, sarebbero 8mila i profughi che, in queste settimane, cercano rifugio sui barconi della speranza nell’Oceano Indiano. Molti, però, risultano dispersi nel Mare delle Andamane, in attesa che Vietnam, Indonesia e Malesia li accettino. E sono circa 5 mila.

Untitled Report

I numeri sono elevatissimi. Il costo sociale e umano non quantificabile. Nel mare delle Andamane si sta giocando una partita a ping pong con la vita di migliaia di uomini e donne che fuggono da condizioni di vita disastrose. Non a causa di guerre o calamità naturali, ma per un odio razziale che miete molte più vittime.

Il 1 aprile, come rivela “Internazionale” la Birmania ha ritirato le carte di identità ai Rohingya, togliendo loro l’ultimo briciolo di cittadinanza.

In questo match non rimane che attendere la fine di questo rimpallo di responsabilità e persone. Speriamo che la pallina, a forza di colpirla con violenza, non si rompa.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...