Quest’anno è il 70esimo anniversario della liberazione dal nazifascismo. Una data importante che ha segnato la storia d’Italia. Oggi l’eredità culturale che ha contraddistinto la resistenza di allora si sta smarrendo, sia tra i giovani che tra i politici. Solo alcuni, troppo pochi, mantengono intatto quel sentimento. Uno di questi è Carlo Rovelli, quasi 90 anni, un partigiano che ha combattuto in Val Grande e in Val d’Ossola. Ho avuto il piacere di conoscerlo e di intervistarlo e mi ha raccontato la sua esperienza, da giovanissimo, tra le file dei partigiani di montagna nel 1943.

Carlo a che età hai iniziato la tua resistenza?
Avevo 18 anni. Inizialmente distribuivo volantini e scrivevo sui muri assieme ad altri miei compagni. Eravamo tutti comunisti e con un grande odio per i fascisti e i tedeschi.
Poi sei andato via dalla città e sei andato in montagna. Come mai? Cosa è successo?
Era pericoloso in città, c’erano molte spie. Io e un mio amico, Ersilio Rigoldi, eravamo stati riconosciuti come facinorosi e avremmo rischiato la galera se non peggio. Ho così deciso di entrare tra le brigate partigiane e di combattere i fascisti in montagna. Siamo partiti per Intra e ci siamo uniti alle squadre agli ordini di Superti. Io facevo parte della compagnia numero 14, formata solo da comunisti. Nelle altre c’erano anche liberali e repubblicani. Inoltre, appena arrivati, ci hanno dato un soprannome; il mio era “Rovo”, da Rovelli.
I tuoi genitori sono espatriati in Francia per evitare le ripercussioni fasciste, ma tu sei nato a Niguarda. Tua madre è tornata in Italia per partorire e poi siete nuovamente tornati oltralpe. Insomma, non potevate restare qui. Quando sei partito per combattere, i tuoi genitori come hanno preso questa decisione?
Mio padre sapeva, ma non mi ha mai detto nulla. Anzi, concordava con la mia scelta. Era fuggito all’estero proprio perchè comunista e fortemente antifascista. Anche mia madre ha acconsentito, ma sapevo che non avrebbe mai preso a cuor leggero la mia partenza. Non ho mai affrontato l’argomento con lei.
Cosa ti ha segnato di più di quell’esperienza?
I combattimenti in montagna mi hanno formato il carattere. Soffrire il freddo, vedere gli amici morire accanto a te o saperli nelle mani del nemico ti forgia dentro. Abbiamo subìto molti rastrellamenti e uno di questi è durato 15 giorni circa. Se nella prima settimana ce la siamo cavata, nella seconda abbiamo sofferto di tutto. Eravamo a corto di munizioni e cibo. Ho visto la morte in faccia molte volte e ricordo la fame. C’erano giorni in cui non mangiavamo nulla. Facevamo il “pasto dell’atleta”.
Cioè?
Il pasto si saltava, proprio come fa un atleta.

Come vi procuravate il cibo, quando possibile, o le armi?
Mangiavamo dove e cosa capitava. Una volta ricordo che ci siamo sfamati con delle fragole rancide e disgustose. Era l’unica cosa che avevamo. A volte si incontravano dei pastori e condividevano con noi del formaggio o quel poco che avevano. Era una fortuna incontrarli. Per le armi era diverso. Facevamo le imboscate. Io, con altri miei compagni, ero addetto all’organizzazione di sabotaggi e retate contro gli avamposti nemici. I fucili erano fondamentali, senza le armi non avremmo potuto difenderci o attaccare. Saremmo stati in balia del nemico.
Parlando di armi. Oggi è difficile pensare che un diciottenne possa usare un fucile. Tu come ti sei sentito, in un contesto come quello, ad imbracciare un arma e a sparare?
Ti dirò, le armi mi sono sempre piaciute. Mi veniva d’istinto sparare. La prima arma che ho avuto è stata una rivoltella. L’ho trovata per caso, nel posto in cui lavoravo come fattorino. Me la son tenuta e l’ho portata a casa. Poi ho provato a sparare. Mi riusciva particolarmente bene.
Armi, munizioni e cibo. Ma per un partigiano non bastavano. Contava molto anche la fortuna o, se così vogliamo chiamarlo, il caso.
Sì, vero. La fortuna è stata una componente fondamentale nelle nostre campagne.
Mi racconti un episodio?
Io con altri due miei compagni stavamo facendo una perlustrazione vicino a una baita. Ad un certo punto, dall’altopiano avanti la casa, sono arrivati due giovani delle SS. Avranno avuto la mia età o forse anche meno. Hanno iniziare a sparare appena ci hanno visti, uccidendo uno dei miei amici. Io mi sono rifugiato all’interno della casa e nascosto in un angolo. Mi sono tirato sopra una sorta di pentolone per fare il formaggio e sono rimasto lì sotto per tutto il tempo. Ho visto gli stivali di uno dei due nazisti a 50 cm da me. Se avesse guardato meglio a quest’ora sarei morto. Sono stato fortunato.
Riguardo al significato della resistenza. Cosa ne pensi dei giovani d’oggi? Sanno a sufficienza dell’antifascismo?
Molti appaiono svogliati. Si disinteressano di troppe cose. Forse perché oggi hanno tutto e non devono faticare a prendere ciò che vogliono. Una volta non era così. Non si aveva niente e si sudava per raggiungere un obiettivo. Noi abbiamo sudato molto per la liberazione.
Carlo appartiene a un quartiere di Milano che è stato liberato un giorno prima del resto d’Italia; il 24 aprile. I partigiani di Niguarda, tra cui Carlo stesso, sono molto orgogliosi di questo primato. A Milano la resistenza si festeggia due volte l’anno.
Qui la fotogallery della manifestazione del 25 a piazza Duomo a Milano