I volti dei popoli nelle foto di Steve McCurry alla Villa Reale di Monza

Ritratto di un ragazzo della tribù Suri, Omo Valley, Ethiopia, 2013. Foto Ufficio Stampa mostra
Ritratto di un ragazzo della tribù Suri, Omo Valley, Ethiopia, 2013. Foto Ufficio Stampa della mostra

“La fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento” diceva Henri Cartier-Bresson. Effettivamente sembra vero, i volti immortalati dall’obiettivo di Steve McCurry rappresentano tante cose; tristezza, povertà, felicità, semplicità, paura, rabbia, dolore, perplessità. La forza delle fotografie di McCurry, oltre che nei colori sfolgoranti, risiede negli sguardi. Donne, vecchi, bambini, cacciatori, pescatori, lavoratori. Persone insomma. Dal 30 ottobre 2014, fino al 6 aprile 2015 la Villa Reale di Monza ospita una mostra dedicata al fotografo americano. Sono stato a visitarla in una fredda e piovosa domenica di febbraio e il maltempo non ha scoraggiato i molti visitatori nel fare la fila per il biglietto.

Un uomo anziano della tribù Rabari, Rajasthan, 2010. Foto Ufficio Stampa mostra
Un uomo anziano della tribù Rabari, Rajasthan, 2010. Foto Ufficio Stampa della mostra

Immediatamente colpisce la disposizione dei quadri, complessa, articolata, forse non molto intuitiva. La bellezza settecentesca della residenza è un contorno ideale e garantisce un confronto perfetto fra due tipologie di arte. I soffitti affrescati di allora e la fotografia oggi. In alcune sale i giochi di specchi (si veda la foto nella copertina da me scattata) offrono prospettive quasi oniriche; Le immagini rimbalzano sui muri e ti circondano e se capita di stare per qualche momento da soli (come mi è successo), allora ci si sente davvero immersi nel contesto. Arte a 360 gradi.

Solo scale e sostegni geometrici mettono in fila i quadri con le foto che hanno fatto la fortuna di McCurry.  Ovviamente presente anche lei, la giovane Sharbat Gula, simbolo della guerra in Pakistan negli anni ’80.

Giochi di ombre, Preah Khan, Angkor, Cambodia, 1999. Foto Ufficio Stampa della mostra
Giochi di ombre, Preah Khan, Angkor, Cambodia, 1999. Foto Ufficio Stampa della mostra

Attraverso i “quadri” si comprendono le tradizioni, gli usi e i costumi di popoli lontani. In prevalenza sono esposte fotografie provenienti dall’Africa, sud e nord America e Asia. Come didascalia solo l’indicazione geografica. Serve quindi l’audioguida. Tuttavia ho preferito osservare le opere senza filtri, senza spiegazioni. Le immagini erano più che eloquenti.

Gli schermi disposti nelle varie sale mostrano alcune interviste all’autore annotando alcune massime di McCurry stesso. “Se si ha poco tempo, non c’è tempo per viaggiare, bisogna subito cogliere l’essenza, andare al cuore della storia”.

Ragazza sull'uscio, Afghanistan, 2003. Foto Ufficio Stampa mostra
Ragazza sull’uscio, Afghanistan, 2003. Foto Ufficio Stampa della mostra

“Volevo essere testimone – continua un altro video – dei grandi eventi. Raccontare culture lontane e antiche”.

Durante l’ascolto ho annotato un consiglio molto importante. Quando si viaggia per il mondo attraverso territori spesso ostili e ci si avventura in realtà complesse e potenzialmente pericolose, ci si deve affidare a qualcuno del posto.

É fondamentale. La vita di un reporter o di un giornalista è nelle mani della propria guida o interprete. Lo stesso Lorenzo Cremonesi, inviato di guerra per il Corriere della Sera, mi ha confermato questa cosa. Avere gli agganci giusti è la prima regola da seguire.

L’arte di McCurry si potrebbe riassumere con due sole foto.

La prima ritrae una breccia nel muro di Berlino, dalla quale si scorge il volto di un uomo. Assomiglia molto allo strappo nel cielo di carta di pirandelliana memoria. Oltre quel varco c’è un altro mondo.

Bambini della tribù Kara che guardano attraverso le finestre, Omo Valley, Ethiopia, 2013. Foto Ufficio Stampa della mostra
Bambini della tribù Kara che guardano attraverso le finestre, Omo Valley, Ethiopia, 2013. Foto Ufficio Stampa della mostra

La seconda è quella di un gruppo di bambini etiopi dietro la finestra. Immagini sfuocate eppure capaci di trasmettere qualcosa attraverso l’obiettivo. Non è forse il lavoro del reporter, in fondo?

Andare oltre la breccia, lanciare lo sguardo dall’altra parte e immortalare ciò che si vede. Raccontare storie attraverso la forza delle immagini.

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