Ieri su La Repubblica è stato pubblicato un articolo di Rukmini Callimachi, giornalista del New York Times riguardo i rapimenti di giornalisti “occidentali” da parte dello Stato Islamico.

Il resoconto fornito da Callimachi descrive la condizione dei sequestrati nelle prigioni dell’IS non tralasciando i metodi di tortura con i quali gli aguzzini di Al Baghdadi sono soliti umiliare i loro detenuti. Appesi a testa in giù, costretti in celle buie e con pochissimo cibo e costretti a subire il waterboarding (tecnica che prevede il prigioniero legato su di un tavolo obliquo, mentre gli viene praticato un annegamento controllato con dell’acqua nelle vie respiratorie).
Lo schema proposto dà subito l’idea di come gli alleati nella guerra all’Is concepiscano diversamente il salvataggio degli ostaggi.
Come si nota, tra gli americani e i britannici, solo il cooperante statunitense Peter Kassig, il giornalista Jhon Cantlie e una donna dall’identità ignota risultano ancora in vita seppur ancora prigionieri. Tutti gli altri, quali James Foley, David Cawthorne Haines, Steven J. Sotloff e Alan Henning, sono stati giustiziati.
Prigionieri danesi, tedeschi, italiani e spagnoli hanno avuto una sorte diversa. I loro governi hanno pagato i riscatti richiesti.
Sono sempre di più coloro che premono per un dialogo costruttivo con il Califfato. Anna Maria Cossiga, in un suo articolo su Limes il 20 ottobre, propone, tra le polemiche di molti, di avviare un canale diplomatico con lo Stato Islamico. Le hanno fatto eco il parlamentare 5 Stelle Alessandro di Battista e il leader radicale Marco Pannella.
All’estero ha fatto discutere anche il libro Talking to terrorists, how to end armed conflicts di Jonathan Powell capo dello staff di Tony Blair e capo negoziatore britannico per l’Irlanda del Nord tra il 1997 e il 2007. Anch’egli propone una chiave di lettura diversa nei confronti del fenomeno terrorismo. Con l’IRA, almeno in parte, ha funzionato.
Ad aggiungere benzina sul fuoco c’è anche David Rohde, giornalista statunitense rapito dai Talebani in Afghanistan nel novembre 2008 e riuscito fortunatamente a fuggire. <<L’approccio casuale sta fallendo>> ha riferito riguardo le strategie adottate in Medio Oriente.
La domanda appare scontata, ma doverosa. Si può trattare con i terroristi? La vita di una persona può essere anteposta alla ragion di Stato? Stando semplicemente ai dati descritti sopra, attualmente la strategia anglosassone non sembra aver dato i suoi frutti. La questione è delicata e molto complessa. Se paghi ottieni il rilascio. In caso contrario il prigioniero viene umiliato (nel caso di Cantlie di cui si è già parlato) o ucciso.
Due approcci diversi. Entrambi rischiosi. È come voler entrare in una cristalleria con un carro armato. Comunque ci si giri si commettono errori o danni.
Restiamo ai fatti…su 7 prigionieri angloamericani 4 sono stati uccisi. Gli altri tutti liberati (tranne il caso dell’ingegnere russo Sergej Gorbunov, anch’egli ucciso).
Compromesso o non compromesso? Questo è il problema.